"Bestiario sardo"
testo critico di Roberta Vanali
“A volte dipingo attratta da qualcosa che “luccica” e che
comunque emerge rispetto ad altro attraverso gli occhi e inconsciamente
attraverso la mente. Improvvisamente si apre un mondo che stupisce anche me”. Muove da una evidente fascinazione per la natura, dalla
sua complessità e perfezione, Veronica Chessa, natura intesa nelle sue varie
declinazioni, fondata sulla meticolosa attenzione per il tratto, deciso e
raffinato, e sulla restituzione dei minimi dettagli, a farla da protagonista.
Non lontana dagli stilemi degli illustratori d’epoca vittoriana - periodo
particolarmente florido per il medium espressivo che in quel frangente si lega
indissolubilmente alla letteratura - ai quali coniuga un universo visionario
che affonda le radici in un hummus di matrice simbolico-surreale, Veronica
Chessa mette in scena un originale Bestiario sardo. Creature ibride, che si
ispirano all’antropomorfismo adottato da Esopo e Fedro per le loro fiabe,
passando per Orwell e la sua Fattoria degli animali, fino ad arrivare a Walt
Disney che dà vita Mickey Mouse e Donald Duck, sono il pretesto per restituire
in maniera allegorica e con perfezione certosina l’anima della Sardegna. Usi e
costumi della tradizione mutuati dall’esperienza diretta dell’artista, senza
mai cadere nella banalità del folclorismo di genere.
Strumento d’indagine delle verità nascoste, l’artista si
avvale della fisiognomica nel tentativo di trarre gli aspetti caratteriali e
psicologici dai lineamenti e dall’espressione del volto. “La fisiognomica è un tipo di osservazione grazie alla
quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità dell’animo”, per parafrasare lo storico umanista Pomponio
Gaurico. Immortalati in posa come nei
ritratti d’epoca, gli animali caratteristici dell’isola assumono sembianze
umane. L’incontro tra uomo e bestia si concretizza attraverso lo sguardo di
Veronica sulla Sardegna, il più delle volte filtrato dai racconti tramandati
oralmente dalla famiglia paterna. Ed ecco che dei piccoli cinghiali in costumi
d’epoca sono ritratti mentre giocano con una bardofula, tipica trottola in
legno, mentre le gemelle altro non sono che due pavoncelle affrontate, motivo
ricorrente nell’intaglio del legno e nella decorazione delle ceramiche di
provenienza bizantina, eleganti nelle pose e nei gesti, separate soltanto da
una pianta di mirto selvatico. E se il marangone dell’Asinara, con tanto di
ciuffo e asinello alle spalle, indossa la giacca in lana di pecora tipica del
pastore sardo, il daino, anticamente denominato dama e bardato come una vera e
propria dama, ostenta palchi in corallo rosso, prezioso organismo che popola i
fondali del mare di Alghero. Del visionario universo dell’artista fanno parte
anche il custode del ribes sardo, incarnato da un cervo oramai estinto che
abitava il Supramonte, zona da dove il ribes proviene, e l’imponente muflone
dallo sguardo fiero, restituito come un vecchio pastore in posa davanti a un
brulicante arazzo. La chiosa non poteva che essere rappresentata dai
Mamuthones, maschere tradizionali di Mamoiada, emblematica fusione tra uomo e
animale. Chimera dell’atavica terra sarda.
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